Non sembri bigotto il riferimento alla parabola del samaritano quando parliamo di sanità…

Non sembri bigotto il riferimento alla parabola del samaritano quando parliamo di sanità e di umanizzazione della gestione della sanità. Non sembri fuori luogo nemmeno il riferimento ai comportamenti del samaritano quando parliamo di approccio alla cura del paziente rivisitato in chiave manageriale nuova e per certi aspetti rivoluzionari. Ma lo si legga come un tentativo di dare un senso più profondo al nostro mestiere di manager della sanità e della salute.

La pagina evangelica è stata tante volte al centro delle riflessioni e approfondimenti di tante esperienze di volontariato da cui sono nate tante espressioni di solidarietà e di accoglienza. Alcune volte la stessa parabola ha rappresentato la vera e propria scintilla della nascita di forti missions o addirittura il principio di conversioni e ravvedimenti.

Oggi accanto al forte contenuto caritatevole mi piace associarne uno nuovo più squisitamente manageriale, probabilmente rivoluzionario. Alla luce della Parola di Dio sembra fuori luogo soltanto accennare a temi della spesa in sanità oppure alla razionalizzazione e contenimento costi o a principi di controllo di gestione con l’uso dei costi standard. Eppure gli sforzi gestionali di eccelsi economisti e importanti managers della sanità sono destinati ad essere contro tendenti davanti al diseconomico approccio del samaritano. Ma è da questo approccio che si scorge una strada di lungo periodo e se vogliamo di “capitalizzazione  degli sforzi e della spesa”  o forse meglio ancora di “capitalizzazione della carità”.

Analizziamo la parabola passo per passo soffermandoci su alcune dinamiche comportamentali e cerchiamo di trasporle nella realtà aziendale.

Dal vangelo di Luca 10,25-37

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.

“Lo vide e ne ebbe compassione”  La capacità di vedere insieme alla voglia di vedere racchiudono in un momento  la fusione di una storia personale di chi aiuta con una storia personale di chi è aiutato. Questo momento è carico  di una dinamica passata e di una dinamica futura fatta di movimenti e di tempi da dedicare . Si aiuta dedicando tempo, dedicando movimento del fare e si aiuta con la  consapevolezza di aver visto una criticità, un bisogno, una necessità di aiuto. Non è facile, anzi probabilmente è impossibile delegare la compassione. L’atto di condivisione della condizione del sofferente o del malato o del povero o dell’oppresso è un atto senza riserve che richiede apertura massima in termini di tempo e in termini di carico e in termini di movimento. Occorre fare nello spazio e nel tempo contrapponendo  la solidarietà che assorbe e talvolta divora la propria vita, presentandosi almeno apparentemente come spreco, verso una economia del tempo che indirizza l’attenzione su programmi razionali e delega altri a operare nel campo della solidarietà. In fondo in fondo anche se volessimo rinunciare ai complimenti e alla gratitudine umana alla fine saremmo curiosi di sapere  se è stata ascritta a nostro merito alcuna partita positiva sul libro della vita.

La visione, l’analisi, la consapevolezza richiedono spesa di tempo, di energia personale e di squadra. La velocità di approccio con cui ci dedichiamo alle “strade aziendali” che percorriamo sono progettate nel loro impianto strutturale per raggiungere nel minor tempo possibile “snodi “ e “crocevia” gerarchicamente predefiniti carichi di attenzioni prestabilite che non hanno spazi e tempi da dedicare a “viuzze” e “vicoli” gestionali non ritenuti importanti o degni di attenzione . Per il samaritano il perdere tempo vuol dire impiegare tempo e investire tempo come se si volesse arricchire il valore patrimoniale della propria professionalità e del proprio compito di aiuto.

Per questo il farsi vicino racchiude una dinamica coraggiosa gestionale che rallenta e frena la discesa ma accelera la capitalizzazione dell’investimento riconoscendo alla carità un valore di attivo patrimoniale che moltiplica lo sforzo in valore ed inverte il concetto del tempo perso.

Il costo standard non è niente di tutto questo. Fa  a cazzotti  con il “sine modo” dell’approccio di cura e di attenzione che impone dei limiti e dei termini all’operazione oltre i quali sei in perdita.

Il samaritano si ferma e perde il tempo programmato

si avvicina e perde il tempo per muoversi verso

si preoccupa e perde il tempo per il primo soccorso

interiorizza la gravità e perde il tempo per programmare il da farsi

si fa carico la non ancora risolta situazione e perde energie di lavoro

trasporta il paziente e perde il tempo per muoversi verso

effettua il secondo soccorso e perde il tempo per fare questo

programma la permanenza del paziente e spende denaro per il soggiorno e promette di rifondere i costi ulteriori per eventuali altri interventi di cura.

Siamo davanti ad un approccio antieconomico puro e quasi sfacciato che scandalizza un qualunque manager impegnato in un processo di risanamento e razionalizzazione e contenimento di costi.

Il questa logica con il sopraggiungere dei fabbisogni e costi standard  e più in generale con ricorso dei controlli di inapropriatezza e di livelli essenziali di assistenza, come potremo misurare il tempo da dedicare alla prevenzione? come potremmo misurare il tempo per la cura e guarigione? come potremmo misurare il tempo per il conforto? Come potremo discernere le attività da includere e quelle da escludere segnando dei livelli, dei limiti e delle appropriatezze nella logica della capitalizzazione della carità “sine modo”?

E se non vedessimo il malato, il povero, il “mezzo morto” per il tempo già calcolato? E se il paziente avesse bisogno di più tempo per la guarigione dove andare a prenderlo? E se il povero avesse più bisogno di conforto e di accoglienza dove sottrarre il tempo da dedicare? E se dovessimo spendere tempo per dare speranze anelate gli obiettivi di budget ce lo permetteranno?

Don Tonino Bello diceva che siamo chiamati ad “organizzare la speranza”. Questo compito ha forse dei tempi ciclo? Ha forse una distinta base di materiali e tempi macchina? Ha forse un metodo da catena di montaggio?.

No, il tempo che l’uomo dedicherà all’uomo è una partita etica spesse volte in perdita che richiede una attenzione etica interna globale di responsabilizzazione delle nostre strutture verso un obiettivo etico e di razionalizzazione etica e non economica. Dobbiamo promuovere la sensibilità verso l’etica non verso i costi. Dobbiamo organizzare le nostre strutture alzando il livello preoccupazione etica interna ad esse ed esterna verso il territorio. Non si può prescindere dai contesti sociali più nascosti non si possono tralasciare le analisi dei “bordi delle strade” dove è necessario fermarsi per spendere il tempo della cura per ciò che sfugge al nostro cammino veloce verso un’aziendalizzazione senza senso.

Da un ex controller industriale

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